Lightpainting

dall’arte alla tecnica fotografica

Introduzione.

Parlare della tecnica del lightpainting è come svelare l’essenza stessa della parola “fotografia”. Al di là infatti del medesimo significato delle due espressioni (“dipingere con la luce”), quello della natura morta è probabilmente il concetto con cui muove i suoi primi passi la tecnica fotografica che, per impressionare i supporti che utilizza agli albori, necessita di tempi di esposizione assai lunghi e che quindi la luce ambiente dipinga contorni ed ombre di oggetti statici.

Sebbene la realizzazione pratica non sia assai complessa, prima di darne qualche accenno, è bene sottolineare che, come in qualunque altro ambito, la tecnica non può, né deve essere il fine ultimo di un’immagine. Una natura morta deve esprimere un tema, veicolare un carattere, essere portatrice di un messaggio. La scena può essere composta seguendo modelli di composizione classici o rompendo gli schemi, ma va rivolta particolare attenzione alla scelta degli oggetti e, soprattutto, alla loro interazione (che sia di promiscuità o di frattura) ed al simbolo che sono chiamati ad evocare.

Alcune immagini che abbiamo realizzato dal 2012 al 2015 utilizzando la tecnica presentata nel workshop.

Un po’ di storia.

Al tempo degli dei c’erano ad Atene due grandi artisti: Zeus e Parrasio; questi avevano stupito la città con le loro opere e i loro dipinti tanto che, per decretare chi possedesse la tecnica migliore, si decise di indire una gara; al vincitore sarebbero spettati gloria e ricordi in eterno.

Zeus cominciò a dipingere su una tela un sontuoso grappolo d’uva poggiato su un cesto di vimini. Di notte, grazie alle luci delle candele che fiammeggiavano vicino alle polveri di colore,  e di giorno, illuminato dal chiarore del sole mattutino, lavorava al suo capolavoro con ardore. Studiava minuziosamente il modo in cui la luce colpiva gli acini e si rifletteva dando vita una miriade di sfumature di colore replicandone gli effetti con grande abilità e sicurezza.
Parrasio invece, era rimasto per molti giorni seduto sulla sua seggiola da pittore, in cerca di una ispirazione che tardava ad arrivare. Conosceva a menadito le opere del suo rivale e cercava un modo per riuscire a superarlo. In una notte più tormentata, al culmine di una giornata nella quale non era riuscito a dare nemmeno una pennellata alla sua opera, decise di fare una passeggiata in una Atene dormiente ma fremente di attesa per l’avvicinarsi della gara.
Senza nemmeno rendersi conto, dopo pochi passi, era giunto alla casa di Zeus e lo vide affannarsi sulla tela dalla finestra illuminata nella notte buia. Avvicinandosi con cautela poté scorgere la meraviglia alla quale il suo rivale stava dando vita: riflessi, colori e sfumature erano semplicemente perfette. Il cesto sul quale poggiava l’uva che faceva da modello sembrava letteralmente specchiarsi nella tela.

Preoccupato e amareggiato di questa visione tornò al suo laboratorio sforzandosi di trovare una soluzione che potesse farlo trionfare; quando fu sul punto di entrare, ormai quasi rassegnato alla sconfitta, venne finalmente rapito dall’idea che, realizzata, avrebbe lasciato a bocca aperta Zeus e tutta la città riunita per la festa. I giorni che seguirono furono di lavoro instancabile e pieno di ardore. Doveva recuperare il tempo lasciato indietro.

Arrivò finalmente il giorno decretato per scegliere il vincitore. I due artisti, dai propri studi, si recarono nella piazza della città seguiti da ali di folla festante. Sotto il loro braccio una tela nascosta da un drappo e sulle loro facce un sorriso di soddisfazione. Nonostante i loro sguardi tradissero la grande stanchezza per i lunghi giorni passati a dipingere, entrambi, una volta giunti, si affrettarono a posizionare sui cavalletti le loro opere. La folla disposta in cerchio attendeva con ansia l’inizio della competizione.

Fu Zeus a muoversi per primo. Tolse il drappo che celava il suo capolavoro, ed ecco apparve a tutti un magnifico cesto di vimini, finemente realizzato, sul quale troneggiava un maturo grappolo d’uva, i cui acini erano talmente perfetti che il sole del primo mattino regalava luccichi e bagliori sulla loro superficie e i colori e le ombre sembravano potersi trasformare al mutare del cielo al passaggio di nuvole solitarie. L’illusione di trovarsi per davvero davanti ad un succulento cesto di frutta si manifestò poco più tardi quando dall’alto, una coppia di passerotti si fermò sul cavalletto dove era appoggiata la tela e, con i loro becchi, accompagnati dallo stupore della folla, tentarono vanamente di rapire tanta bellezza e tanta golosità solo dipinta, cercando di riportare a casa qualche acino d’uva. L’autore dell’opera ormai sorrideva soddisfatto convinto della propria supremazia ma fu sorpreso di scorgere nel volto di Parrasio la tranquillità e la consapevolezza di chi sa di poter essere ancora il migliore. Questo stava in piedi ad ammirare il dipinto del rivale accanto alla sua opera ancora coperta dal telo. Zeus, infastidito dalla sua supponenza, chiedendosi cosa avesse potuto realizzare di così perfetto da superare la tecnica dimostrata dal suo grappolo d’uva, si mosse e si avvicinò all’altro. Vedendolo ancora immobile decise alla fine di svelare lui stesso questo presunto capolavoro e tese la mano sul lembo del telo che lo celava. Grande fu la sorpresa negli occhi di Zeus quando si accorse che non avrebbe mai potuto sollevare il tessuto e comparve amarezza quando si rese conto che alla fine era stato battuto. Il telo era dipinto. Parrasio fu l’artista più grande di Atene, al tempo degli Dei.

Questo aneddoto, di Plinio il Vecchio tratto dalla sua Naturalis Historia, testimonia che la raffigurazione della natura morta nasce con la pittura stessa. Molto probabilmente, infatti, questo genere fonda le sue radici insieme alle prime dimostrazioni artistiche consapevoli dell’uomo. Nel corso degli anni, la raffigurazione di fiori, oggetti, strumenti musicali ha ovviamente seguito diverse fasi ed è solo nel corso del Seicento che ha assunto i connotati di dignità e perfezione che ancora oggi gli riconosciamo. Eppure possiamo trovare esperienze figurative più antiche.

Vanitas Vanitatis – 2012 – esse2photo

Vanitas vanitatis

(2012 – esse2photo)

Immagine realizzata con la tecnica del lightpainting

In epoca ellenistica, tra il III e il II secolo a.C., si svilupparono alcuni generi, come gli xenia e gli asaratos, (immagine 1 e immagine 2) che testimoniano come fosse d’uso comune rappresentare, in alcune stanze, per mezzo di affreschi e mosaici, resti di cibo o fiori. Questo uso era probabilmente collegato ai doni che il padrone di casa era solito fare agli ospiti affinché li mangiassero tranquillamente nelle stanze dove alloggiavano. Ma erano appunto, oggetti, cose inerti. Emblemi di una pittura minore che segnerà la natura morta per molto tempo.

1. Xenia

2. Uno degli asaratos

Nel 1300 il genere si sviluppa ulteriormente: è questo un periodo storico in cui vengono affrontate e revisionate alcune tematiche di ordine teologico e filosofico. Sono i germogli della visione umanistica completata un secolo più tardi; l’uomo è al centro di un cosmo creato su misura per lui, e deve confrontarsi con una natura a volte terribile e spaventosa, deve misurarsi con l’infinito tendendo bene a mente la sua condizione mortale ed effimera. Ecco che dunque nelle rappresentazioni di nature morte compaiono teschi, fiori appassiti, frutta secca, foglie caduche: monito e simboli di un messaggio che non è più fine a se stesso..

È la rappresentazione di una condizione passeggera, di un destino, di un memento mori (immagine 3a e 3b); è l’avviso che anche la bellezza più lucente cederà il passo ad una realtà più cruda e infruttifera, presto o tardi.

3.a – Un esempio di “memento mori” nella storia dell’arte.

3.b – Un esempio di “memento mori” nella storia dell’arte.

5. Particolare da un dipinto di Giotto

È un invito a confrontarsi con l’essenzialità delle cose, spogliando l’ideale per arrivare ad una genuinità virtuosa e senza macchia (immagine 4 – particolare di affresco trecentesco; immagine 5 – Giotto, particolare).

4. Particolare di affresco trecentesco

6. Esempio seicentesco

Tuttavia l’ottimismo e l’attenzione filosofica ed artistica verso l’uomo e la sua realtà sviluppati in questi anni troveranno nella natura morta un campo di sperimentazione utile e fertile. Di questo periodo sono infatti le stupefacenti esercitazioni dei pionieri della prospettiva (che da qui a poco si imporrà come metodo ideale per la rappresentazione artistica in tutte le sue forme): pannelli lignei, ante di armadi, scansie in cui sono collocati gli oggetti più diversi, anticipando soluzioni e soggetti che verranno adottati nel Seicento (immagine 6).

In particolare, nella genesi di tale genere, si può fare un riferimento alla pittura fiamminga e a quella di Antonio Leonelli da Crevalcore (imm. 7, dettaglio), dove appaiono nel particolare di San Paolo nel trittico di Etrepy e in altre sue opere una serie di nature morte.

Alla rappresentazioni di tali oggetti si aggiunge la grande famiglia degli strumenti musicali a partire dal XVI secolo quando cresce l’attenzione verso la rappresentazione di forme del mondo naturale; è l’uomo che si confronta con la natura (e la matematica applicata) ormai vista come modello al quali attingere per generare vera bellezza. Si può ricordare, tra i numerosissimi esempi di tale atteggiamento, l’opera di Giovanni da Udine di cui rimane famosa la rappresentazione di strumenti musicali ai piedi di santa Lucia di Raffaello rappresentata in un quadro (immagine 8), le grottesche ghirlande a motivo di decorazione di Villa Farnesina, i vari dipinti di Leonardo assai attento a riportare fedelmente la Natura che lo circondava (immagine 9).

7. A. Leonelli da Crevalcore – San Paolo (particolare)

8. Giovanni da Udine – Strumenti musicali nel quadro Santa Lucia di Raffaello

9. Leonardo da Vinci – Milano

Ma, nel 1599, ecco la Canestra di frutta (immagine 10). La natura morta ha un nuovo punto di partenza. Fino a questo momento il soggetto reale delle rappresentazioni pittoriche nobili erano scene religiose, provenienti dalla vita di Cristo, avvenimenti storici importanti, episodi tratti dalla mitologia greca e romana. C’era poi il ritratto che aveva una funzione pratica: diffondere l’immagine di re, papi, nobili, condottieri, o comunque di un uomo o donna con un elevato prestigio sociale.

10. Caravaggio – Canestra di frutta

Caravaggio invece, in questa composizione naturale vivida come un Cristo in croce, cerca la religiosità non più nel simbolo, ma nel frutto stesso, in quella mela corruttibile, in quella foglia deteriorata dal tempo. Da genere di parte e “minore” il pittore lombardo, trasforma la rappresentazione della natura morta in una opera vera e propria, che gode della sua indipendenza e si arroga il diritto di poter competere con l’intero panorama nobile dei circoli artistici. Da questo momento in poi la rappresentazione di frutta, foglie, oggetti inanimati avrà un senso ben più preponderante e significativo. Non più il riflesso secondario di un contesto storico culturale filosofico, non più il capriccio o la testimonianza di un esercizio tecnico, non più semplice decorazione ma il punto di inizio, un vero soggetto, di una indagine seria e approfondita sulla natura e sull’uomo, foriera di messaggi e simboli più o meno visibili.

In seguito verrà l’epoca delle ricerche scientifiche e delle tavole che riproducevano fedelmente piante e animali. Verranno i quadri del bergamasco Evaristo Baschenis, dove gli strumenti sono gli unici protagonisti e sembrano vivi (immagine 11).

Verrà lo spagnolo Francisco de Zurbarán, con le sue tavole imbandite simili a piccoli drammi teatrali con luci e ombre (immagine 12).

11. Evaristo Baschenis

12. Francisco de Zurbaràn

13. Cézanne – Mele e pere

Verranno artisti, mode, revanchismi fiamminghi e pittura provinciale italiana, ma la forza della canestra caravaggesca aveva segnato uno spartiacque: le cose, a volte, vivono di vita propria. Partirà da qui la ricerca di Cézanne: le sue «incredibili mele e pere» (citando Woody Allen in Manhattan) rinunceranno pian piano alla forma per alimentarsi del proprio colore (immagine 13). Il corrispettivo letterario lo si trova nei romanzi di un grande amico d’adolescenza di Cézanne, Émile Zola, che ne Il ventre di Parigi (1873) scrive: «(…) E la frutta! E i pesci, e la carne! (…) era chiaro che a Claude, in quel momento, non passava nemmeno per il capo che tutte quelle bellezze fossero da mangiare. Lui non ne amava che il colore». E ci saranno le evoluzioni. Picasso scomporrà le forme per riannodarle in una, diversa ma ugualmente perfetta, autonoma. Il surrealismo autarchico di Salvador Dalí e la metafisica di De Chirico deformeranno gli oggetti in una solitudine che pare sfibrata dagli anni (come gli «orologi molli» de La persistenza della memoria del catalano) o, al contrario, immobilizzati in una luce serica (come nelle nature morte dell’italiano, il quale però preferiva l’espressione «vita silente»). Per arrivare alla «severa elegia luminosa», come Roberto Longhi definì le composizioni di Giorgio Morandi (immagine 14 e 15).

14. Giorgio Morandi – Natura morta

14. Giorgio Morandi – Natura morta

Nel bolognese, brocche, piatti e bottiglie compiono un ulteriore passo avanti: la forma scaturisce dal colore, dalla fusione tonale con il paesaggio circostante, come se le cose potessero nascere da quello che pensiamo, guardiamo, sentiamo. Il mondo è quello che vediamo, le cose sono quelle che siamo.
Concludendo, queste tappe, storiche e artistiche, sono nient’altro che la testimonianza di una vitalità fertile che questo genere ha donato alla ricerca filosofica intorno all’arte e all’uomo, in aperto e fiero contrasto con la sfortuna di dover essere annoverata con il nome di natura morta.

Cenni di tecnica fotografica

Molto spesso le nature morte sono realizzate con un’illuminazione molto tenue proveniente prevalentemente da una direzione. Le ombre sono spesso sfumate ed i colori resi tenui. Questo risultato per così dire pittorico si potrebbe ottenere con una fonte luminosa ampia ma diffusa (ad esempio una finestra in una giornata nuvolosa o alle prime luci dell’alba o al tramonto o una luce artificiale – flash o continua – filtrata da un soft-box), ma questo comporterebbe la necessità di disporre gli oggetti sulla scena (in una posizione spesso scomoda) ed attendere il momento propizio per fotografare o l’uso di più flash e diffusori per equilibrare l’illuminazione sulle varie zone della foto. Un’altra tecnica è invece quella di utilizzare una fonte luminosa “piccola” (sia d’intensità che di superficie) e muoverla sulla scena, dipingendo così di luce le aree che si vogliono mettere in risalto. Questo procedimento, definito appunto light-painting, ha però necessità di lunghi tempi di esposizione (che possano permettere al fotografo di illuminare tutta la scena e non solo piccole aree) e di una sala completamente buia.

Si utilizzerà quindi la fotocamera in modalità manuale impostando il tempo di esposizione al massimo possibile (solitamente 30 secondi) o sfruttando, se disponibile in macchina, la modalità bulb (che potrà permettere di prolungare ulteriormente la durata dello scatto).

L’apertura di diaframma, in foto realizzate con questa tecnica, è solo marginalmente rilevante: la profondità di campo infatti è solitamente ampia nei dipinti e lo stacco fra i piani è realizzato solo con differenze nell’illuminazione. Sebbene inoltre, com’è noto, l’apertura del diaframma inciderà sulla quantità di luce che impressionerà il sensore, dal momento che è possibile soffermarsi con la fonte luminosa su qualsiasi area della scena, sarà pressoché ininfluente ai fini della resa dell’immagine. Per questa ragione, solitamente, si cerca di utilizzare un’apertura tale da massimizzare la nitidezza dell’immagine (quindi attorno ad f/5.6 in ottiche fisse luminose o f/8 in obiettivi zoom più economici) o tale da minimizzarla (sfruttando il degrado della sensibilità dovuto ai fenomeni di diffrazione), per ottenere un effetto più pittorico (quindi almeno da f/11-16 su corpi macchina con sensore APS-C e da f/16-22 su corpi fullframe).

Per gli ISO principalmente vale il discorso già riportato per l’apertura di dia-framma: dal momento che è possibile illuminare più o meno le zone della scena mantenendo la fonte luminosa più o meno a lungo in loco, è pressoché ininfluente la scelta sulla possibile resa finale. Ovviamente dipingere ad ISO alti permetterà di illuminare la scena con una “pennellata di luce” più rapida, ma, com’è noto, incrementerà il rumore digitale presente in foto. Dal momento che i lunghi tempi di esposizione tendono già a riscaldare il sensore (e questo fenomeno costituisce un’altra importante causa che porta alla comparsa di hotspot e rumore) è preferibile scattare questo genere di foto mantenendo un livello di ISO basso.

Ultimo aspetto da considerare è che, spesso, si utilizzano fonti luminose dall’incerto colore ed è assai complesso regolare a-priori il bilanciamento del bianco (white-balance); molto più semplice ed efficace è gestirlo in postproduzione, tramite uno dei classici programmi di fotoritocco o sviluppo digitale come Lightroom, Photoshop, Gimp, … Per ottimizzare però questa possibilità è opportuno utilizzare la modalità di scatto in raw digitale, in modo da ottenere un file più lavorabile e personalizzabile.

Un ultimissimo consiglio per coloro che si accingono ai primi esperimenti: è bene, dopo aver composto la scena, regolare (automaticamente o manualmente) la messa a fuoco su un piano intermedio della composizione prima di aver spento le luci della stanza. Una volta eseguita l’operazione è fortemente consigliabile posizionare il selettore della modalità di messa a fuoco del proprio obiettivo sulla modalità manuale, onde evitare che, a luci spente, la macchina cerchi inutilmente di trovare un bersaglio al buio, rovinando la preparazione iniziale.

Una volta al buio, premuto il pulsante di scatto, è possibile iniziare a “dipingere” la scena, passando il pennello luminoso sulle aree da illuminare, soffermandosi più o meno a lungo sulle zone da esporre maggiormente o minimamente. Con alcuni tentativi si intuirà facilmente se dilatare o ridurre i tempi delle “pennellate” per ottenere gli effetti desiderati. Riguardo il “pennello luminoso” è possibile utilizzare una piccola lampada a led (di quelle a batteria per leggere di notte, in vendita a circa 1€ nei negozi di fai-da-te) o il monitor di un cellulare o di un tablet (facendo uso di una delle tante app gratuite che permettono di illuminare il display del proprio dispositivo con un colore a scelta); meno appropriato è l’utilizzo della torcia/flash dei telefoni che è studiata per avere un cono luminoso sufficiente per le foto, ma troppo ampio per l’utilizzo in questo campo. In ogni caso è una tecnica che si presta assai bene al fai-da-te, per cui molte soluzioni sono alla sola portata della nostra immaginazione.